ATTILIO MARCHETTI, INVENTORE E POETA

 

Attilio Marchetti, più che un uomo moderno (oggi che va di moda la specificità, la specializzazione sia nella vita che nell'arte), si può considerare un personaggio rinascimentale, con una miriade di interessi e con la curiosità dell'«uomo nuovo», una curiosità che affronta con entusiasmo la sperimentazione e che ne mette in pratica subito i risultati. E forse nei piccoli paesi è più facile - anziché nelle grandi città - scoprire questi inventori di situazioni e di oggetti, affettuosi raccoglitori di memorie e ironici (perfino beffardi) commentatori di fatti familiari e di personaggi con i quali si vive quotidianamente a contatto di gomito.

Credo di aver conosciuto Attilio Marchetti nel giugno del 1964, in occasione del primo premio di disegno «Piffero d'oro», che avevo organizzato a Sala Baganza per conto di Erminio Camorali, proprietario del ristorante «I Pifferi» e amico del simpatico Ninetto Camattini, della galleria omonima in strada Garibaldi. Era una rassegna un po' diversa dai soliti premi estemporanei, nei quali i pittori di Parma usavano il colore e la memoria, per raccontare scorci familiari: al «Piffero», invece, era richiesto un disegno in bianco e nero (matita, china o carboncino) e chi non sapeva disegnare poteva tranquillamente restarsene a casa.

A Sala, Marchetti era intervenuto con Alberto Cattani, suo amico e sponsor «virtuale», visto che il taciturno Alberto mi aveva fornito un giudizio positivo sul baffuto Attilio, tanto da indurmi a dedicargli, qualche anno dopo, un «ritrattino» sulla terza pagina della «Gazzetta di Parma» e, nel 1969, due pagine con biografia, foto dell'artista e di un quadro e testo critico sul volume «Cento pittori a Parma» della Nazionale Editrice (mille copie esaurite in un attimo).

Il personaggio era curioso, ma anche il pittore, pur con certi alti e bassi, possedeva abilità costruttiva e senso del colore. Così, dopo una visita nella sua casa di Collecchio (sempre con l'accompagnamento del silenzioso Cattani), avevo scritto questo testo: «Marchetti-personaggio è forse ancora più interessante di Marchetti-pittore. Un uomo dai mille interessi, che vanno dalla pesca alla raccolta di insetti e alla ricerca di frammenti romani o addirittura glaciali. Se vi si aggiunge l'attività abituale di svelto artigiano, a Marchetti resta veramente poco tempo da dedicare alla pittura. Anche se, come è accaduto per il concorso delle «Ville parmensi» alla Galleria Sant'Andrea, può saltar fuori improvvisamente il quadro alla Springolo, essenziale, dai colori difficilissimi.

Per il resto, attività limitata a pochi quadri l'anno; paesaggi, soprattutto, ma sempre caratterizzati da costruzioni: muri mezzo descritti e mezzo indovinati, in ocre e bruni, quasi divisionisti. E Marchetti, in casa, si tiene quattro o cinque lavori, e basta. Con qualche pastello che gli ricorda il difficile periodo bellico, quando lui e Cattani andavano a dipingere in Taro e magari mangiavano un gatto in padella, visto che non si trovava niente a più buon mercato.

Ora si è messo a fare lo scultore, con vecchie radici sputate dal greto del fiume. E nascono strani trampolieri su una gamba sola, fantasmi ondulati, maternità, crocifissioni. E Marchetti, anche se li crea, ne è convinto per quel tanto che basta: che non debba creare problemi mentali.

Ma vi lavora intensamente in ogni momento libero. In quel suo laboratorio nel seminterrato che sembra l'antro di una strega, pieno di ferri, catene, lampade e utensili vari. E Marchetti vi si aggira metà entusiasta e metà scettico, sorridendo delle scoperte e prendendosi in giro anche un po' da solo».

Poi, dopo un periodo in cui Marchetti non si era messo molto in vista, lo avevo riincontrato in occasione del concorso «Le ville parmensi», nell'ottobre del 1967, dove l'olio dell'imprevedibile Attilio aveva ottenuto il terzo premio (acquisto, di lire 75mila): la manifestazione era stata organizzata a supporto dell'uscita del bel volume (e ormai introvabile) di Lodovico Gambara, appunto sulle ville antiche della provincia. Marchetti si era imposto all'attenzione della giuria (ma anche del pubblico) con una brillante versione di Villa Paveri Fontana.

A Collecchio era subito diventato famoso come «barbiere artista» e la sua bottega è stata per quasi cinquant'anni un autentico centro culturale, dove si poteva conversare di pittura o imparare la storia di un paese, il romano Colliculum, del quale Marchetti aveva amorevolmente raccolto notizie e leggende, raccontare storie di ciclisti o di mostruosi pesci catturati in Taro.

Ma il «vulcano Attilio» spaziava tra gli argomenti più disparati: aveva insegnato a decine di giovani a giocare a scacchi, poi dava lezioni ai pescatori (tanto da far di-ventare il suo negozio un punto di ritrovo per i «Cannisti Collecchio») e perfino le maschere del Carnevale lo affascinavano, così che negli anni Cinquanta aveva resuscitato le sfilate dei carri, interrotte ai primi del secolo.

Molti concittadini ricordano ancora sfilare per il paese la grande «Tartaruga» realizzata dal gruppo che faceva capo all'incontenibile Attilio.

Amava molto il suo paese e la testimonianza più concreta sono i tanti album che ha riempito - almeno fino a che gli occhi glielo hanno consentito - con cartoline del paese agli inizi del secolo, ritagli, testi, poesie, etichette: ce n'è perfino una della primitiva attività della ditta Tanzi, quando produceva pomodoro in lattine ed era di dimensioni familiari e priva di debiti. In questa montagna di ricordi c'è buona parte della vita e degli interessi di Marchetti, personaggio a tutto tondo e non solo pittore.

Osservando la sua casa, le sue tracce su mobili e pareti, si notano, in un bel disordine organizzato, cornici che raccolgono, come tanti soldatini, pennini e calamai, carta assorbente e inchiostri vari, immagini dei soci del «Lento Club», società ciclistica nata nel 1907, ricordi del mitico Galaverna, foto di monumenti e di calciatori degli anni Trenta, permessi di circolazione in bicicletta (quando si pagava il bollo come, in seguito, per le auto).

Ecco, abbiamo toccato un tasto delicatissimo: le due ruote, autentico mito sociale dell'artista di Collecchio. In cantina conservava tutta una serie di biciclette, anche se la più amata era quella robusta, da greto del Taro, di un bel verde sottobosco e con un sellino largo circa il doppio di quelli normali. Così, aveva coinvolto moglie e figlio in lunghe e faticose perlustrazioni sul fiume a cavallo delle due ruote. Lui, poi, in bicicletta, qualche volta arrivava fino a Parma, a Traversetolo, a Fontanellato.

E aveva scritto anche una sorta di poesia/bando:

«La bici in città
 è il mezzo ideale per spostarsi agevolmente
non ingombra il traffico
non inquina
non fa rumore
si posteggia facilmente
non costa molto
non paga il bollo
comporta modeste spese di mantenimento
in Olanda è usata anche dalla Regina
è salutare.

La bici in campagna
vi permette di guardare il paesaggio,
sentire il profumo dei fiori di gaggìa,
l'odore dell'erba falciata e quello della terra appena arata,
udire il canto degli uccelli,
il gorgoglìo delle piccole cascatelle d'acqua,
il richiamo delle rane e dei grilli.

Pensierino:
poiché non esistono piste ciclabili,
perché non crearne una nel tratto Collecchio-Fornovo,
nella vecchia sede del tram?»

Quindi, un anticipatore dell'attuale politica delle piste ciclabili che oggi portano avanti tanti  sindaci e assessori di Comuni.

Cosa si può dire ancora di Marchetti? Forse ribadire che è stato veramente un uomo rinascimentale, dati i numerosi interessi che gli hanno permesso una vita piacevole, anche se non di grande popolarità fuori dalla sua Collecchio. Ma a noi oggi interessa soprattutto l'attività di pittore e di scultore, e quindi analizziamo questo centinaio di opere (ma sarebbero molte di più - come testimonia l'amico Claudio Cesari che le ha fotografate quasi tutte) selezionate per la retrospettiva 2004 a Villa Soragna (che segue quella del 2003 dedicata ad Alberto Cattani).

Qual è lo stile di Marchetti, quali la sua cultura e il suo modo di accostarsi alla realtà locale senza tuttavia rendersi ovvio o pedante?

Giudicare la produzione di un artista non è facile.

Tuttavia, il tempo aiuta a rendere più libere le idee. Ed ecco che questa collana di immagini di dipinti di Attilio Marchetti, autonomamente descrive gusti, caratteristiche artistiche ma anche umane, stile, abitudini, desideri, piacere di raccontare, contatti quotidiani con un ambiente amato, vissuto e goduto.

Ripercorriamo, quindi, come se fossimo accanto a lui, le tappe di una «vita da pittore» (anche se un po' distratto da tanti altri richiami). Cominciamo dagli anni del primo dopoguerra: un pastello su carta del 1945, con una strada nel bosco che anticipa già una sensibilità paesaggistica che verrà sviluppata nel corso degli anni; dello stesso anno, un altro morbido paesaggio, «Il vecchio salice», che presenta bruni e azzurri che ricordano un grande pittore parmigiano, Bruno Zoni. Poi - e siamo nel 1946 - due pastelli e acquerelli su carta, trasparenti come «Una giornata di primavera» e «Sole di dicembre», seguìti da un curioso pastello dedicato al gioco degli scacchi.

Robusto, nei rossi, nella prospettiva aerea, nella luce scandita e nell'accostamento di blocchi di costruzioni, l'«Angolo di Collecchio» del 1948. Ma siamo negli anni '50 e la sensibilità creativa di Marchetti produce un verdastro greto del Taro e un curioso cavalluccio di legno da bambino. E siamo nel 1960, con una pittura che si fa sempre più salda: dai «Lavori sul Po» (una serie di chiatte robuste tipo «Premio Suzzara») ai forti paesaggi di Collecchiello e Ponte Scodogna, fino a quel «Pastore tedesco» ricco di vitalità.

Continuiamo nei felici anni '60 con un «Inverno sull'argine» dai bianchi colanti, il leggero pastello sul Taro, il distributore di carburante (tutti del 1962), il movimentato «Pescatore» (pastello del 1964), il roccioso «Castello di Felino» (del 1965), i due brillanti vasi di fiori (del periodo appena successivo), «L'ultimo albero» in mezzo alle case, il segmentato «Barcaiolo», seguito da una natura morta con vasi e zucche, un «Inverno a Pontescodogna», uno strano «Vaso di fiori» dipinto a tessere e pennellate vaganti, un animale («Antenato del camoscio») dipinto su compensato di pino ruvido, un altro coloratissimo omaggio a Pontescodogna e un suggestivo «Castello di Golaso» del 1970.

Qui si può identificare il passaggio tecnico della pittura di Attilio Marchetti, che, da poetica e figurativa trasposizione del «vero», acquisisce una propria personalità e uno stile «divisionista», con vuoti e pieni che donano prospettiva. Intensa una «Natura morta» (pompelmi e vecchi libri) molto libera, seguìta da una serie di paesaggi coloratissimi che offrono un Marchetti coraggioso e deciso: «Il Boscone», «Case Pisani», un liberissimo «Taro», l'essenziale «Villetta», la quasi astratta «Ruspa rossa», un ritorno al figurativo più accurato  in «Monte Sant'Antonio», il dolce «Ponte sul Taro alla Maraffa», una sorta di «Animaletto in terracotta». Sono tutte opere tra il 1970 e il 1975.

Poi, la pittura di Marchetti si fa ancora più coraggiosa ed essenziale, considerando il colore non più come riempitivo del disegno, ma come scheletro del quadro: dalle «Case a Collecchiello» al pastello su Castellonchio, dalle movimentate «Bobine» a tre paesaggi che richiederebbero un discorso a parte. Qui, infatti, la tecnica lascia campo libero al colore e sia «Controluce» che «Taro» e «Ruspa gialla» del 1975-76 offrono di Marchetti le caratteristiche più innovative e interessanti, inserendolo tra gli artisti più liberi del periodo.

Ma gli anni '70 sono sempre più sorprendenti e servono a completare un giudizio positivo (a volte quasi stupefacente) sull'artista di Collecchio: così, Marchetti passa disinvoltamente dalle eleganti «Casanuova» e «Casa Marconetto», pulsanti nei colori suggestivi che scandiscono le stagioni e la varie luci del giorno, fino alla sciolta elaborazione di quadri come la barca azzurra nell'acqua azzurra (olio del '76), l'«Autunno a larghe spatolate, il divisionista «Pioppeto», il rugoso (e in rilievo) «Bosco di pioppi», l'esplosivo «Pioppeto alla Maraffa» e l'aggressiva «Via Spezia», tutte opere di quel periodo.

Anni '70 che continuano con una serie di paesaggi della zona, dal «Torrione» simbolo di Collecchio a ponti, case, campi di frumento, cedri e pioppi, fabbriche, estate e inverno: è un po' il 1976 l'anno più intenso per l'attività di Attilio Marchetti che gira per le campagne e fissa prati e boschi, costruzioni, piante e cieli, fino al «Bargello» e al «Castello di Fontanellato».

Ma opera anche in studio, come testimonia tutta una serie di nature morte; ne vogliamo ricordare tre: la ritmica «Vaso, brocca e candeliere» e le «Bottiglie» in fila del 1977 e «Zucche, boccale, vasi, candeliere e bottiglie» del 1979, composizioni piene di colore e di movimento, che offrono un artista a tutto tondo, capace sia di prendere spunti dalla natura che di comporre in studio, mantenendo - in ogni caso - la vitalità e l'entusiasmo della costruzione.

Ecco, credo che sia proprio il grande amore per la pittura (e quindi il grande amore per la vita nelle sue varie espressioni) la caratteristica dominante dell'artista collecchiese, del quale scorriamo ancora una serie di paesaggi fino agli anni '90: «La Maraffa», l'arancio intenso della «Fornace Mutti», i gialli estivi di «Casa colonica a San Martino», i balloni in equilibrio precario di «Dopo la mietitura». E poi le cose degli ultimi anni, quando la pennellata si è fatta più incerta e il colore va un po' per conto suo: «La casa del custode» del 1991, «Al Pirlòn» e «Zalera» del '92 e «Castello Mancapane» del '93, caratterizzati da una pittura essenziale e disinvolta, non più ancorata a caratteristiche di costruzione e di saldezza disegnativa.

A proposito di disegno, completiamo questa carrellata sulla variegata attività di Marchetti con tre carboncini su carta del 1944 e il ritratto di «Mario al gôb, sellaio», una china su carta addirittura del 1937.

Ma non finisce qui, perché esiste tutta una sezione di composizioni-sculture che concludono e definiscono meglio la complessa personalità di Marchetti: sono legni, metalli, radici, fossili, etichette e cartoline, pennini e fiammiferi, martelli e forbici arrugginite, cinturini, materiali da pesca, chiodi e chiavi, frammenti di ferri da stiro, affettatrici, stufe economiche, assemblaggi originali e divertenti che diventano sculturine armoniose nelle mani di un «inventore» della materia e del colore, un poeta innamorato della vita.

Tiziano Marcheselli